Giuseppe Caruso ha realizzato una copia pittorica: “Resurrezione” di Cristo” di Piero della Francesca

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Nel marzo 2024, durante un corso di pittura, come esercizio per facilitare lo studio della composizione pittorica e per meglio precisare gli elementi del linguaggio visivo, al fine di rivelare il profondo sentimento e la passione per l’Arte, Giuseppe Caruso ha realizzato una copia pittorica: “Resurrezione” (olio su tavola, formato cm 140×122), del dipinto murale “La Resurrezione di Cristo” di Piero della Francesca, capolavoro rinascimentale, realizzato tra il 1450 e il 1463 circa, ora conservato nel Museo civico di Sansepolcro, in Toscana.

Pur essendo una fedele “copia” la pregevole realizzazione di Giuseppe Caruso esprime tutta la peculiarità espressiva dell’originale, prestandosi a una riflessione sul rapporto tra spazio religioso e contemporaneità, perché in sé l’opera esprime un’atemporalità attualizzante, capace di comunicare attraverso la figurazione il sotteso messaggio teologico.

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Centro della composizione è il Risorto.

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Tra due colonne scanalate, con postura frontale, solenne, un maestoso Cristo è raffigurato mentre esce vittorioso dalla tomba, quasi scavalcando l’enorme sarcofago, infatti, ha un piede appoggiato sul bordo e l’altra gamba ancora all’interno. Sul suo corpo sono evidenti la ferita al costato – ancora sanguinante – e la trafittura dei chiodi alle mani, mentre, statuario, regge un lembo del mantello e un vessillo crociato, emblema del suo trionfo: è risorto da morte. Il Crocifisso è vivo, eppure i segni della sua passione non possono essere cancellati: restano indelebili sul suo corpo trasfigurato dalla luce serena dell’alba della risurrezione.

L’immobile figura del Cristo domina uno schema con geometrica prospettiva, quasi rispondente a un ordine superiore, al quale perfino lo spazio (il paesaggio) e il tempo (le diverse stagioni) rispondono, registrando il prima e il dopo: per metà spoglio e metà verdeggiante. Perfino la natura sembra partecipare all’inaudito mistero.

Non partecipano, invece, gli uomini alla base della tomba, raffigurati mentre dormono.

Rappresentano i soldati romani di guardia al sepolcro, ma anche i discepoli che – nell’orto del Getsemani, appesantiti dal sonno – non hanno saputo vegliare con il Maestro.

Inoltre, nel fulgore di un così straordinario avvenimento, lo sguardo del Cristo – diritto innanzi a sé – sembra fissare il vuoto. È solo, come nella tragica passione e morte. Non l’attende nessuno. Sebbene vincitore della morte per sé e per tutti: inimmaginabile dono, non c’è alcun ricevente. Nessuno è capace di accogliere la Luce della vita, venuta a splendere e dissipare le tenebre del male.

Ebbene, quest’incapacità ad attendere ci riguarda e interroga. Pure noi siamo come quei dormienti: fragili, impotenti, incompiuti, perché privi di fede e mancanti di speranza. Quel sonno, infatti, è segno della nostra umanità stanca, assuefatta al materiale, ermeticamente chiusa all’interiorità, indifferente allo spirituale.

Quest’assurda realtà è contestata dal Cristo, il cui imperterrito sguardo, non posato sui dormienti, proteso in avanti, sembra guardare oltre, superando lo spazio e il tempo. Impassibile, guarda all’avvenire… a quelli che verranno dopo, fino a noi e a quelli dopo di noi. È come se guardasse e interrogasse l’osservatore del dipinto e tutti quelli che lo ammireranno: ci sarà mai qualcuno in grado di capire e accogliere la verità del dono?

È questo il drammatico messaggio che il capolavoro di Piero della Francesca, comunica, in ogni tempo.

La risposta è possibile attraverso la fede, che non è un’adesione acritica, implica una scelta personale consapevole che riflette i nostri limiti e le nostre fragilità nel fidarci della parola di un altro da noi che non possiamo davvero comprendere. Si crede ciò che non si sa, si ha fiducia in ciò che non si può verificare.

Ma se Cristo non fosse risorto, la nostra fede sarebbe vana.

La risurrezione di Gesù pone davanti all’indicibile, all’umanamente impossibile, davvero incredibile. Uno straordinario evento, indimostrabile: oscillante tra adesione e incredulità, tra fede e speranza: quel corpo crocifisso è corpo glorificato.

Nessun vangelo racconta il momento della risurrezione, ma tutti attestano e concordano che il sepolcro fu trovato “vuoto”, che non “prova” la risurrezione, ma ne è “segno”.

La sorprendente scoperta della tomba vuota avviene «il primo giorno» (Gv 20,11): un giorno nuovo per il mondo, quasi una nuova creazione: è «il giorno che ha fatto il Signore» (Sal 118,24): «una meraviglia» (Sal 118,23) per chi vuole dare un senso alla propria vita, credendo al Vangelo come regola per seguire Gesù, cercando di conformare il quotidiano della propria esistenza alla sua umanissima vita, il singolare camminare al suo distinto: seguendolo nell’amore che si fa servizio-senza-pretese e che soddisfa ogni desiderio del cuore.

È Maria di Magdala che, impossibile a rassegnarsi alla perdita del Maestro, spronata da un irrefrenabile slancio del cuore: si reca al sepolcro quand’ancora non c’è luce ma tenebra: è buio non solo tutt’attorno, perché la notte non è ancora terminata, pure nel suo cuore: turbato dalla tristezza e dalla non-fede nell’inaudito, impensabile e irreparabile.

E mentre è ancora buio, ecco la sconcertante novità: «vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1). Smarrita e angosciata suppone un trafugamento del cadavere.

Maria non entra nel sepolcro, eppure nel vederlo aperto l’immediata deduzione non è la risurrezione, ma il furto della salma. Il suo umanissimo affetto per il Signore non basta a condurla alla luce: alla fede nella risurrezione. Sconvolta, neppure verifica se c’è o non c’è il cadavere, precipitandosi ad avvertire i discepoli dell’accaduto: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro» (Gv 20,2). Sola, non può ancora capire la possibilità che il Signore da sé si sia slegato e liberato e se ne sia andato. D’altronde è ancora buio: oscurità che esprime la sua situazione e pure quella dei discepoli. Tuttavia, nelle sue parole ai discepoli si avverte un inconsapevole spiraglio di luce: «Hanno portato via il Signore» (Gv 20,2), non «il corpo del Signore». Senza saperlo, parla del defunto Maestro come di un vivente.

Allora, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro. Giovanni è più veloce e giunge per primo, ma non entra, dà solo uno sguardo: «osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20,6-7). Quando arriva, Pietro entra, calmo – per rendersi conto d’ogni particolare – osserva i teli lasciati in ordine: come prima, cioè nell’esatta posizione in cui erano quando avvolgevano il corpo di Gesù, legato. Neppure il suo attento e razionale sguardo basta a cogliere il mistero. Anche Pietro, per ora, rimane perplesso e incredulo. È evidente, infatti, che non può trattarsi di sottrazione del cadavere: l’eventuale trafugamento sarebbe avvenuto con tutte le bende, altrimenti avrebbe causato disordine.

I due discepoli constatano la corrispondenza con quanto ha visto e riferito Maria di Magdala.

Dopo entra pure Giovanni «e vide e credette» (Gv 20,8).

Ma cos’ha visto, per giungere a credere?

Ha visto quanto ha visto e di cui si è pure reso conto Pietro: nessuno poteva aver sottratto e occultato il corpo di Gesù perché i teli e il sudario erano posati come se ancora avvolgessero il suo corpo, senza tuttavia contenerlo.

Allora, cos’ha visto?

Non il Risorto, ma l’Assente.

Solo indizi dentro un inspiegabile vuoto, che – riempito d’amore – per il discepolo diviene Presenza. E così, per l’amore che lo lega a Gesù, il discepolo amato comincia a intuire e a fare spazio nel proprio animo alla novità assoluta di Dio: la risurrezione.

Per vedere la vita in quel luogo di morte occorre credere alla testimonianza della Scrittura: accostata al vuoto del sepolcro la riempie d’una Parola che è all’origine della risurrezione, perché è la stessa Parola del Dio della Vita.

La risurrezione è realtà talmente inaudita che, sebbene preannunciata dalle Scritture, non è facile da comprendere. Sarà possibile solo quando lo Spirito della verità «guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13), illuminando e aprendo la mente alla fede nel Crocifisso-Risorto.

Ritornata alla tomba, Maria di Magdala piange. Il suo pianto esprime tutto il suo affetto e il suo ineguale attaccamento a Gesù, ma pure il suo nostalgico ancorarsi al passato: non riesce ad allontanarsi dall’ultimo posto in cui ha visto deposto il corpo dell’amato. Affranta, resta vicino al sepolcro, piangendo, inconsolabile. Mentre è in lacrime, vede due angeli: custodi di una tomba inviolata, però vuota: senza il corpo di Gesù, che le chiedono: «Perché piangi?» (Gv 20,13); presumendo una sottrazione, risponde: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto» (Gv 20,13).

Maria si dispera perché Gesù è morto e perché non sa dov’è il suo cadavere: bloccata alla prima supposizione della pietra rimossa; ferma al sepolcro aperto. Poi vede uno che non riconosce, sebbene le parli: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,15). È talmente presa dalla ricerca di un morto, introvabile, che non è capace di riconoscere Gesù vivo. Un defunto infatti sta in posizione orizzontale, mentre Gesù è in piedi, in posizione eretta.

Maria non si accorge di aver già trovato colui che cerca: l’amato del cuore gli è davanti.

Gesù le rivolge la stessa domanda degli angeli, ma con una significativa aggiunta: «Chi cerchi?» (Gv 20,15): il cercato, a chi cerca, chiede chi stia cercando, quando gli è davanti.

Maria, gli risponde: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,15).

Allora, Gesù le si rivela Risorto, chiamandola: «Maria!» (Gv 20,16).

Sentendosi chiamare per nome, riconoscendo la voce, subito la discepola risponde: «Maestro!» (Gv 20,16).

È l’incanto e il mistero dell’incontro. Ora, l’assente è Presente e, in questa presenza dell’Altro Supremo, Maria “trova” se stessa: la profonda consapevolezza dell’essere, oscillante tra identità e alterità, in inscindibile unità, derivante dal relazionante incontro delle differenze: creatura e Creatore; finito e Infinito; umano e Divino; discepolo e Maestro; mortale e Signore.

L’identità è così inequivocabile che Maria di Magdala non dubita di aver trovato e di stare vicina a Gesù. Si volta con la certezza di non essersi ingannata: quella voce è del Maestro, e il modo in cui la chiama è come risveglio alla luce del giorno: le apre la mente all’insperato e il cuore alla gioia.

Il riconoscimento della voce è peculiarità dell’autentico discepolo, capace di discernere in mezzo al distrattivo frastuono di molteplici voci quella del Maestro e Signore. Questo è l’atteggiamento di chi crede perché ha ascoltato parole amabili e ha ritenuto affidabile la voce che parla, perché parla all’intimo del cuore: risponde alle domande più profonde d’ogni vita.

Vedendo il Crocifisso-Risorto, la tristezza di Maria di Magdala si cambia in gioia e va ad annunciarlo ai discepoli: «Ho visto il Signore!» (Gv 20,18).

A questa possibilità deve tendere lo sguardo ammirato di chi osserva un’opera d’arte.

 

Giuseppe Pagana

 

 

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